In punta di piedi (nudi) a casa di Isoke
Quando ci è stato presentato il progetto teatrale abbiamo capito subito che sarebbe stato diverso dalle altre volte. Troppo coinvolgimento, troppe emozioni. Soprattutto, troppa responsabilità. Un carico di interrogativi che ci ha intimorito, stordito forse, ma non fermato perché se le donne forti danzano scalze da qualche parte devono pur iniziare. E così, a costo di esser fraintese, le scarpe le abbiamo lasciate nel foyer, la musica è partita e ci siamo ritrovate a muovere i primi passi.
Cinque donne che raccontano di altrettante vittime di violenza. In parte la rivivono quella violenza perché non ce n’è una che non l’abbia vissuta. Fermatevi, pensate e cercate nell’archivio della vostra memoria. Eccolo lì quell’atteggiamento inspiegabile del capo, quel commento del collega, quelle scelte assurde del genitore, quella decisione presa dal marito. Quel pregiudizio di genere che ha bloccato, anche solo per un attimo, il vostro cammino, quando qualcuno ha deciso per voi. Ne siamo state sfiorate appena, a volte senza comprenderlo. Noi.
Nulla, invece, ha potuto Hina castigata da un padre schiavo della mentalità islamica, nulla Deborah le cui denunce si sono ridotte a polvere sugli scaffali della questura, nulla Isoke abbagliata dalla luce del Paradiso oltre la Nigeria, nulla Carmen imprigionata nella gabbia domestica di un domatore perverso, nulla Juliette la cui debolezza l’ha resa complice di un compagno feroce. Nulla l’ultima ammazzata.
Donne, mamme, figlie, unite dallo stesso sogno.
Un cielo blu cobalto sul capo, un soffitto impalpabile, una linea estrema capace di rispedire a terra le aspirazioni, i desideri, le certezze che a volte sfuggono incredibilmente in alto. Impossibile trattenerle perché a lanciarle è la mano dell’entusiasmo. Oh, sì certo, ogni tanto, raramente, nella volta limpida passa timida e frettolosa una nuvola. Di quelle fugaci, innocue. Neanche il tempo di accorgersene prese dall’euforia di quella fetta di vita. Poi un’altra e un’altra ancora ma è ancora presto. No, non vogliono rinunciare a quel regalo. Perché dovrebbero? Ad un tratto però tutto diventa scuro e i fulmini prima in lontananza si fanno sempre più udibili fino a rimbombare nelle loro teste. È tardi, è tardi, prede della tempesta. Qualcuna, come Juliette, riesce ancora ad intravedere un raggio di luce, “tornerà il sole, torna, torna sempre”. Le altre no. Smarrite nel buio capiscono che ormai la bufera le ha risucchiate.
A questo punto è un terribile gioco di forza, perseveranza e fortuna. Tanta fortuna. Le donni forti danzano e riemergono come Isoke e Carmen o sono sopraffatte dal senso di impotenza degli uomini come Deborah e Hina, vittime più di una società sorda che del loro destino. Altre rimangono sedute con la schiena spalmata sulla parete. Alle Juliette bambine allora va insegnato che togliersi le scarpe in pubblico non sempre è maleducazione.
Delle tre sopravvissute a chi diceva di amarle Isoke è l’unica rintracciabile: un dovere per me cercarla, parlarle, toccarla. Perché esiste. Il racconto pubblicato da Melampo è carne. È una vicenda agghiacciante vissuta su un’invidiabile e profumata pelle nera che si fa sintesi di tutte le schiavitù nate con la promessa di un lavoro in Italia.
La sua è una storia di liberazione, di rinascita, di solidarietà verso chi ancora “sbatte” sette giorni la settimana per cinquantadue settimane. Casa Isoke, fondata insieme al suo straordinario compagno, è “un posto, un qualcosa che dice alle ragazze: c’è una speranza”. Una possibilità di districarsi dalla rete fitta in cui sono aggrovigliate, dalla tratta spiegata abilmente nel libro Le ragazze di Benin City al quale rimando con la doppia vergogna che, nel caso specifico, il tutto è accaduto nella mia città. Delle aggressioni, gli stupri di massa, i linciaggi che subiscono da chi le comanda e chi le abborda lascio parlare lei. Come dei viaggi atroci, del freddo, della paura, della rabbia. Della denuncia inutile e dannosa. Del rimpatrio umiliante. Due volte schiave nella schiavitù, perseguitate da parenti famelici di denaro, ignari che “non è vendendo le loro figlie ai trafficanti che costruiranno per loro, e per la Nigeria, un futuro decente”. Ricchezza per lo Stato che le ha lasciate andare, invisibili per quello che le abbandona sulla strada.
Sufficiente un passaggio, riassuntivo, affinché nessuno si senta escluso, lontano, non imputabile. Neanche tu che giri la testa sdegnato dalla vergogna sotto il tuo balcone. “La tratta non è solo un problema di sesso, di puttane e di clienti. La tratta è anzitutto un affare colossale. Un business. È una schiavitù che rende un mucchio di soldi e questi soldi se li dividono bianchi e neri, in perfetto accordo. Sulla pelle di noi ragazze non nasce solo la fortuna della gente come la maman […]. Ci sono anche i bianchi perbene, quelli che non picchiano mai i figli o la moglie, quelli che magari la domenica vanno in chiesa, hanno un bel cane, bravi vicini, una reputazione su cui non appare mai l’ombra di una macchia. Sono questi che vendono i visti, che organizzano i viaggi, che ti fanno passare senza dare nell’occhio dentro agli aeroporti. Sono i poliziotti venduti, gli avvocati delle maman, i mediatori, gli affittuari. Un sacco di brava gente che ha fatto fortuna grazie al traffico delle ragazze di Benin City. Ma agli occhi di tutti sono loro le cattive. Le puttane”.
Il cielo non è tornato blu cobalto sulla testa di Isoke perché nonostante la casa ben arredata, il compagno, l’attività intensa “il passato non la lascia un momento”. La violenza segna per sempre. Le notti agitate si placano solo alla luce del giorno quando il sorriso contagioso le torna sul viso tondo e bello impreziosito dalle linee della sua tribù. E al caldo di un meraviglioso sole di giugno noi l’abbiamo incontrata. Un pomeriggio genovese passato tra le strade di De Andrè abbellite dai colori del mondo e le chiacchiere di amici vecchi e nuovi.
La vita è un’altra cosa, ma il teatro è anche questo dolce Isoke. L’ orgoglio di interpretare una prostituta nigeriana, la forza trasmessa da questa. Noi che raccontiamo e, ogni volta, impariamo. La nostra voce nelle case delle protagoniste. Un tentativo di arrivare ad orecchie tappate. Una passeggiata in Via Prè. Un abbraccio sincero a Genova Principe. Ritrovarsi dentro la storia. Con te, con voi. Donne forti che danzate scalze.