Lila, Lenù e la Teoria della ghianda.
Da poco è terminata la seconda stagione de L’ Amica Geniale e come già successo con la quadrilogia da cui è stata tratta sarà difficile per gli amanti di Elena Ferrante staccarsi dalle vicende delle protagoniste che permettono di immedesimarsi quando con una, quando con l’altra, parteggiare, odiare, amare. Vite dettate da un rapporto intenso e morboso attraverso le quali è possibile cogliere – o almeno provare a farlo – il significato di ciò che Hillman definiva Teoria della ghianda. Già il primo libro, infatti, è segnato da una sliding door* che la scrittrice inserisce definendo così fin da principio il futuro diverso delle due e sbattendoci in faccia quanto le scelte di altri – in questo caso i padri – possano bloccare l’espressione di un potenziale talento e se questo accade anche quanto potere ci sia nelle mani di ogni individuo nella realizzazione dello stesso a prescindere dal contesto in cui cresce, vive, si relaziona.
Hillman sosteneva in sintesi che ognuno di noi porta con sé una dote innata – un’immagine già scritta – che si manifesta liberamente soprattutto nell’infanzia e che dimenticata durante la crescita aspetta solo di essere riscoperta. La chiamava daimon ma per facilità possiamo chiamarla talento, vocazione, propensione, attitudine, scopo, destino, fato.
Esattamente come una piccola ghianda che ha in sé tutte le potenzialità per farsi grande quercia anche noi racchiudiamo alla nascita integre le componenti per diventare quello per cui siamo venuti al mondo.
La questione è che spesso la voce che indica la direzione si dimentica, si accantona, non le si dà fiducia, non viene riconosciuta, a volte addirittura viene respinta dal desiderio di uniformarci agli altri o peggio ancora a quello che gli altri vogliono da noi siano essi genitori, mariti, amici.
Lila e Lenù nascono nel medesimo quartiere malfamato di Napoli nel periodo post bellico. Le facce segnate e senza futuro che guardano ogni giorno sono le stesse così come le violenze fisiche e verbali dalle quali sono circondate. I muri sporchi, i morti ammazzati, le urla delle pazze del rione fanno da analogo sfondo alle loro miserabili vite. Al tempo stesso entrambe si distinguono sui banchi della scuola elementare: Elena (Lenù) perché costante nello studio, ordinata, precisa, attenta e rigida nel metodo; Raffaella (Lila) per il genio e la sregolatezza. Differenze che alimentano il desiderio reciproco di legarsi e permettono alla maestra Olivero di scorgere in loro quello di cui probabilmente parlava Hillman. Le bambine sono nate per studiare, per esprimersi fuori dalla pochezza in cui sono immerse, così calandosi nel ruolo di mentore l’insegnante prova a dar loro la possibilità di coltivare quella predisposizione: convoca le madri di ambedue con la speranza di convincerle ad autorizzare l’iscrizione alla scuola media. Una follia a quel tempo per la condizione sociale a cui appartengono.
Ed è qui che riconosciamo la prima e più importante porta scorrevole del lungo romanzo, il momento topico che in virtù di una decisione – in questo caso altrui – cambia la storia di ognuna.
Sembrano fortunate le due allieve perché nel decadimento generale una persona intuisce e prova a dare respiro a quelle capacità altrimenti ignorate ma se la stella pare brillare per Lenù lo stesso non accade per Lila. Il padre della prima anche se ostacolato dalla moglie approva mentre dall’altra parte della strada quello della seconda smorza ogni velleità: femmina e povera la figlia deve rimanere a casa.
Da qui le due esistenze prendono strade diametralmente opposte se pur con continui incroci e prolungate convivenze.
Elena dal carattere mite raggiunge con merito la licenza media e le borse di studio le permettono di iscriversi prima al liceo classico e poi, grazie a quel rigore tipico che la caratterizza fin dall’infanzia, alla Normale di Pisa. Si laurea, conosce un ragazzo di buona famiglia con il quale si sposa e diventa scrittrice. La vita agiata non le impedisce di commettere errori ma questa è un’altra storia. La sua vocazione è intatta, il talento salvo. La trasgressiva Lila invece, nonostante l’arguta intelligenza superiore a qualsiasi altro personaggio della saga, è destinata al degrado fisico e intellettuale del rione che durante la giovinezza assume i contorni del violento matrimonio in cui si ingabbia sperando nella propria ascesa sociale.
Cosa sarebbe successo se Lila avesse avuto le stesse possibilità di Lenù? Viene da chiedere.
Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione: ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono. Hillman.
Abbiamo visto come per Lila e Lenù questa sensazione fosse chiara fin dalle prime battute ovvero la necessità di liberarsi delle condizioni claustrofobiche del quartiere attraverso lo studio e l’allenamento delle proprie virtù. Ecco quello che devono fare, ecco quello che devono avere. Hillman però non è ingenuo e sa bene che la strada scritta non è detto che si realizzi. La ghianda, infatti, può rimanere tale, essere distrutta prima che si liberi, restare piccola, ammalarsi, essere schiacciata o rubata da uno scoiattolo. Per Lila può significare adattarsi, soccombere, assumere le sembianze di chi la circonda, abbandonare per sempre i libri. La scrittrice è padrona di scegliere questa via oppure optare per altro e lasciarci intravedere — nelle mille difficoltà di un’esistenza travagliata — l’altra implicazione della teoria.
Sta nell’individuo la responsabilità delle proprie scelte e da esso dipende la capacità di ricontattare anche in età adulta quella sorta di vocazione congenita soffocata dalle pregresse condizioni, qualunque esse siano.
Il daimon se non individuato prima è comunque una presenza latente che va cercata e, anzi, non ci abbandona mai arrivando in aiuto nei momenti cruciali. Lila sceglie, sbaglia, si assume la responsabilità e al tempo stesso è consapevole delle risorse infinite del proprio intelletto di cui continua a prendersi cura leggendo, studiando, informandosi e mettendole al servizio di quelle imprese professionali che in parte la riscattano.
Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali. Hillman.
Un chiaro richiamo quello di Hillman alla responsabilità personale che sfugge alle catene della predestinazione genetica e sociale rendendoci artefici del nostro destino. Nonostante le pressioni esterne possano influenzarci dunque ogni essere umano è chiamato a riscoprire o provare a non lasciare la sua vera natura. Questo ci insegna lo psicologo junghiano invitandoci a farne tesoro. Questo significa diventare quercia: riappropriarci dei nostri talenti e dargli sostanza con l’impegno e la perseveranza. E questo ci trasmettono con le loro debolezze e tormenti le due straordinarie figure femminili create dalla penna sconosciuta di Elena Ferrante. Ascoltiamoci e proviamo a riconnetterci con il nostro daimon.
Cosa amiamo fare? Cosa ci viene facile fare? Cosa ci ha impedito finora di realizzare i nostri sogni?
Ciò che provoca disagio, ansia, insoddisfazione, difficoltà nell’attuazione è forse qualcosa in cui ci siamo trovati nostro malgrado. Dobbiamo accettarlo in eterno? Lila e Lenù suggeriscono di no provando e riprovando a cambiare la rotta consce che quello per cui sono portate è probabilmente ciò che hanno sempre sentito nelle loro corde. Proprio come una ghianda che scopre o riprende tardi il suo disegno e forse non diventerà più quercia possente ma potrà comunque trasformarsi in un bell’albero sotto cui accucciarsi.
Questa sommaria analisi della teoria della ghianda rapportata al romanzo ci concede, infine, anche la libertà di riflettere sui nuovi livelli di analisi che spingono a inquadrare Lenù e Lila come la stessa persona – Elena Ferrante – che attraverso il racconto soggettivo delle due esistenze analizza in realtà la sua storia ponendosi di fronte a diverse porte, scorrevoli appunto. Rimanere o partire, arrendersi o lottare? Il “cosa sarebbe successo se“ che arrovella i pensieri di molti di noi.
Elena e Raffaella dunque chi sono?
Due bambine consapevoli del proprio daimon lasciato alimentare in un caso e ostacolato ma continuamente cercato nell’altro? Due ragazze che provano a rimanere ancorate al proprio riconosciuto talento attraverso lo studio istituzionale o quello da autodidatta considerandolo l’unica via di salvezza? Oppure rappresentano le diramazioni di una stessa storia che accompagnano in un affascinante viaggio di consapevolezza? Rimarrà un mistero come l’identità di chi le ha ideate ed è giusto così. Noi possiamo servirci – anche a questo serve l’arte – dei modelli proposti per rispondere alle nostre di domande prendendo quello che riteniamo più utile nel tentativo di individuare e riallacciarci a quella voce che – Hillman assicura – almeno qualche volta nella vita ci ha già indicato la via.
E voi? Qual è la vostra vocazione? Ci avete mai pensato?
*La traduzione letterale di sliding doors è porta scorrevole e si riferisce al momento topico di una storia, un elemento imprevedibile che può cambiare la vita di una persona. Si parla dell’effetto sliding doors oppure “cosa sarebbe successo se…“. Questo particolare significato è venuto a crearsi dopo l’uscita nel 1998 del film omonimo diretto da Peter Howitt, con protagonista Gwyneth Paltrow.